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La solitudine dei capi

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Il capo – che diriga, conduca o dia direttive – è notoriamente solo. Abbandonato da tutti, almeno sul posto di lavoro.

E non è l’esemplificazione della frase “uomo solo al comando”, è solitudine di chi non può e non deve comunicare con gli altri. E con cui gli altri non possono e non vogliono comunicare. Spiego: un capo, più o meno in generale, se non è odiato, è quantomeno inviso ai ‘sottoposti’. Per ragioni di invidia, o perché non si condivide la sua direzione, o perché si preferiva qualcun altro per quel ruolo. I vincenti, poi, non piacciono a nessuno e un capo è uno che ce l’ha fatta – un vincente, appunto. È colui di cui ci si lamenta, «Non mi ha dato le ferie», «Non mi considera», «Prefersice quel leccaculo di Tizio» e simili.

Ma il capo è anche uno che ha responsabilità, obblighi, scadenze, pressioni. Sottostà a logiche a lui superiori, regolamenti, ambizioni, conflitti interiori sul comportamento da tenere. E chi più ne ha più ne metta. Con chi potrà confrontarsi, a chi confiderà le proprie difficoltà lavorative? Un capo è solo perché non ha mai tempo – un impegno o una riunione lo richiamano sempre altrove – e il tempo tiranneggia anche le buste paga più gonfie. E i suoi guadagni sono proporzionati a quella solitudine, a quel tempo che scarseggia e alla capacità che quel capo possiede di estraniarsi dagli altri, di mettersi al di sopra quasi, per condurre senza mescolarsi alla truppa.

Per un capo, il posto di lavoro è un campo di battaglia: pochi amici, tanta fatica.

Written by Pitrocchio

9 giugno 2013 a 14:19

Pubblicato su Pitrocchiate

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